STORIA DELLA CHIESA Medioevale VI PARTE: Fozio Il patriarca - TopicsExpress



          

STORIA DELLA CHIESA Medioevale VI PARTE: Fozio Il patriarca Ignazio Durante l’estate dell’847, al patriarca Metodio era succeduto sulla sede di Costantinopoli Ignazio; costui, figlio minore dell’imperatore Michele I Rangabè, al tempo del colpo di stato di Leone l’Armeno (813), era stato messo in un monastero e reso definitivamente inca­pace di avere prole. Egli era senza dubbio giovanissimo allora; cre­sciuto in età, nei giorni dolorosi di Teofilo (829-842) si era dimostrato difensore zelante delle sacre immagini: ristabilita l’ortodossia, egli diveniva, all’epoca del patriarca Metodio, uno dei personaggi ec­clesiastici più in vista. Trionfava definitivamente con lui il partito monastico, verso il quale il defunto patriarca aveva negli ultimi tempi dimostrato qualche freddezza. Il nuovo eletto, pio, zelante, avrebbe volentieri ristabilito nel patriarcato bizantino la pace religiosa da sì lungo tempo turbata; ma ben presto apparve chiaro che là dove non era riuscito il liberalismo di Metodio nemmeno la rigidezza di Ignazio sarebbe meglio riuscita. Bisogna dire subito che l’arrendevolezza non era la dote predominante in quel figlio d’imperatore, e ben lo si vide in una questione destinata ad aver echi prolungati. Era giunto a Costantinopoli nell’843, fuggiasco davanti all’invasione araba, l’ar­civescovo di Siracusa, Gregorio Asbesta; avrà costui brigato, alla morte di Metodio, per salire alla cattedra episcopale? Non è da esclu­dersi; comunque, vero è che proprio il giorno della sua consacrazione, Ignazio gli fece un affronto in pubblico e nacque fra i due uno scre­zio: Gregorio fu da Ignazio deposto e sostituito, senza pregiudizio di altre pene ecclesiastiche da cui fu colpito in seguito. La questione, conforme al diritto bizantino, rimesso in uso dopo la riconciliazione di Costantinopoli con Roma, fu portata davanti alla Sede Apostolica: Ignazio, intorno all’853, richiese a Leone IV conferma della depo­sizione di Gregorio, ma il papa dichiarò di non potersi pronunziare che in piena conoscenza di causa e convocò pertanto le due parti ad una discussione in contraddittorio. Altra richiesta di Ignazio alla curia; e questa fu ricevuta da Benedetto III, successore di Leone: medesima risposta, trasmessa a Costantinopoli nel corso dell’857, che per? giunse soltanto nell’858 alle mani di Ignazio, il quale sembra rifiutasse di riceverla. Qualche tempo dopo il patriarca si troverà ad aver bisogno dell’appoggio della Sede Apostolica; il 23 novem­bre 858, per ordine del governo, verrà rapito a forza dal patriarcato ed internato nell’isola del Terebinto, nell’arcipelago dei Principi. Destituzione di Ignazio Questo provvedimento non aveva nulla a che fare con la faccenda di Asbesta; già da un pezzo il dissidio fra il patriarcato ed il Sacro Palazzo si andava accentuando. Nel marzo dell’856 Michele III, fi­glio di Teofilo — che fino allora aveva regnato sotto la reggenza della madre Teodora, — veniva proclamato maggiore d’età; ciò vo­leva dire la fine dell’influenza di Teoctisto, messo a lato della reg­gente per la volontà espressa del defunto imperatore. Teoctisto non tardava ad esser assassinato, ed allora il potere pass?ònelle mani di Barda, zio di Michele, che diverrà curopalata nell’859 e cesare nell’862. A Teodora non rimaneva altro che scomparire, ma ciò non fu senza sua resistenza; ora nelle lotte di predominio, di cui era tea­tro il Sacro Palazzo, era impossibile ad Ignazio mantenersi neutrale: egli infatti patteggiava per la pia principessa, alla quale si doveva il ristabilimento dell’ortodossia, mentre Barda non gli ispirava che sen­timenti di repulsione. Questo nuovo padrone della situazione, ac­corto, intelligente e colto, e ben lo dimostrava l’aver.egli creato una vera e propria università nella capitale, appariva però disgraziata­mente destituito di senso morale; anche non volendo prendere alla lettera le dicerie provenienti dagli ambienti monastici, le quali gli at­tribuiscono l’intenzione di sopprimere il nipote onde regnare lui in suo luogo, bisogna pur riconoscere che i costumi di Barda non erano punto edificanti. Venne il giorno in cui, per una sua scappata un po’ più grossa, il patriarca si ritenne in dovere di negargli la comunione; ciò avvenne nell’Epifania dell’858. Nel corso poi del medesimo anno, Ignazio, invitato a dare il suo concorso per internare in un mona­stero l’imperatrice madre ed una delle sue figlie, rifiutò senz’altro di prestarsi a siffatta parodia. In Palazzo allora si pretese vedere un nesso fra questo rifiuto ed un tentativo di ribellione scoperto proprio i in quel tempo; il giorno stesso in cui l’autore della congiura veniva, giustiziato, e quasi per affermare la connivenza del patriarca, Ignazio era arrestato ed internato. Non era la prima volta che un ordine dell’imperatore restituiva alla quiete della contemplazione o dello studio un patriarca in carica; senza risalire troppo indietro, v’era il precedente dell’843, allorché la pia Teodora aveva posto Metodio in luogo di Giovanni il Gramma­tico, nemico delle sacre immagini; trent’anni prima, per ordine di Leone l’Armeno, l’iconoclasta Teodoto Cassitera aveva invece sosti­tuito l’ortodosso Niceforo. In entrambi i casi il provvedimento era stato giustificato col factum principis, al quale si era pensato dopo a dar l’aspetto della legittimità; ritenendo pertanto che anche questa volta sarebbe andata così, per sostituire Ignazio si pensò ad uno degli alti personaggi dell’amministrazione: al protasecretis Fozio. Fozio Nato a Costantinopoli nel primo quarto del secolo IX, da fami­glia distintissima così per la posizione sociale come per l’ortodossia dei principi, Fozio, dopo brillanti studi si era dapprima avviato al­l’insegnamento e con la parola e con la penna s’era conquistata gran fama. Ciò che dell’opera di lui ci resta, ed è una mole notevole, nono­stante le mutilazioni subite, attesta una curiosità sconfinata: gram­matica, logica, dialettica, metafisica, esegesi, teologia, tutte queste di­verse discipline aveva egli affrontato successivamente durante il pro­fessorato. Il suo Myriobiblon dimostra vaste ed approfondite letture nelle più varie direzioni; più tardi poi, durante gli ozi del suo primo esilio (867-874), egli avrà occasione di metter per iscritto un gran numero di elucubrazioni filosofiche, scritturali, teologiche, nate nel tempo del professorato. Pur conservando per tutta la vita la forma mentis professorale e la mania di farla da maestro, Fozio non doveva però fossilizzarsi in quelle funzioni; certo è, sebbene non possiamo dire quale fosse precisamente il suo cursus honorum, ch’egli entrò di buon’ora al Sacro Palazzo ed arrivò fino all’importante carica di protasecretis con dignità di protospatario. O prima o dopo la collazione di questa di­gnità fu mandato ambasciatore presso gli Arabi, o presso il califfo di Bagdad o qualche emiro della Mesopotamia; non sappiamo.11 Resta il fatto che al tempo in cui Michele III inaugurò il suo regno perso­nale, Fozio era uno degli uomini più in vista a Costantinopoli; rite­nerlo immischiato alle scandalose avventure che si svolgevano allora a Corte non sarebbe di buon gusto, poiché il protasecretis, ufficiale probo e certamente zelante, non aveva desiderio di ingerirsi negli af­fari personali dell’imperatore o di Barda. Si pretese più tardi ch’egli si compromettesse nel partito che, raccolto intorno a Gregorio Asbesta, cercava di suscitar brighe al patriarca Ignazio; si parlò perfino di un vero complotto ordito contro quest’ultimo: ciò non è affatto provato, però. La causa di Asbesta, e la curia romana era della stessa opinione, non era poi così cattiva quanto si pretendeva nel patriar­cato; Barda lo sosteneva e Fozio seguiva le orme del suo capo. Quanto poi ad attribuire già fin d’ora al protasecretis l’ambizione di soppian­tare Ignazio, è un ingannarsi sul carattere di lui e non tener conto alcuno delle sue reiterate affermazioni. Fozio eletto patriarca Tale l’uomo che in siffatti frangenti il governo di Barda pensava di elevare al seggio di Costantinopoli. Ben è vero che contro di lui si sarebbe potuto eccepire che, essendo egli semplice laico, avrebbe fatto, come si diceva, la figura del neofito; ma anche qui vi erano dei precedenti. Senza risalire addirittura fino alla fine del secolo IV, si potevano allegare i recentissimi casi di Tarasio e di Cassitera; l’esclu­siva contro i « neofiti » non era a Bisanzio altrettanto stretta che a Roma, e le fonti greche, anche quelle ostili a Fozio, quasi non insistono su questa circostanza della sua elevazione. Assai più grave era il fatto che il seggio su cui si pretendeva installare il protasecretis non era vacante. In circostanze analoghe, i patriarchi eliminati dal potere civile finivano per dimettersi. Dapprima si poterono temere le rea­zioni di Ignazio, notoriamente ostinato, ma non fu poi troppo diffi­cile, in dicembre, ottenere che sottoscrivesse un atto di abdicazione; questa rinunzia, condizionale od assoluta che fosse, permetteva di provvedere al trono patriarcale. Certo più tardi si pretese che Ignazio, rassegnando la sua carica, ponesse come dovere ai metropoliti di non eleggere a patriarca altri che uno della sua comunione. A chi mirava questa esclusiva? Senza dubbio ad Asbesta ed ai vescovi schieratisi con lui. Si poteva dire di Fozio che non fosse in comunione con Ignazio? Al protasecretis non passò nemmeno per il capo, né si potrebbe provare ch’egli aspirasse al trono ecumenico; egli dichiarerà più tardi, e più volte, di aver accettato soltanto a controvoglia quella designazione che sconvolgeva tutta la sua vita, e noi lo crediamo senza difficoltà; si spiega però altresì che, di fronte ad istanze replicate, «egli non rifiutasse la Chiesa che indebitamente gli veniva Offerta». Tutto sommato, si profilava una magnifica funzione da esercitare: la funzione del pacificatore, e Fozio, che senza dubbio non deprezzava il proprio valore, accettò le profferte di Barda; in dicembre veniva scelto a successore di Ignazio. Del resto, il meglio era d’intendersi amichevolmente con il pa­triarca decaduto, e per un istante parve che la formula fosse trovata: Fozio avrebbe riconosciuto ad Ignazio una sorta di patriarcato ono­rario ed avrebbe cercato i consigli di lui per gli affari più importanti. Accettò Ignazio questo compromesso? Non sapremmo dirlo; Fozio invece credette potervi contare su, e nei giorni immediatamente pri­ma di Natale ricevette i vari ordini inferiori, poi, proprio il giorno della solennità, la consacrazione che lo faceva patriarca di Costantinopoli. Fu Gregorio Asbesta ad imporgli le mani. Agitazione antifoziane Tuttavia Ignazio aveva ancora fautori, tra gli altri Metrofane, ve­scovo di Smirne, e Stiliano vescovo di Neocesarea, i quali diverranno e resteranno capi dell’opposizione: radunati quanti amici vi erano del decaduto patriarca, costoro proclamarono la nullità dell’elezione di Fozio. La manifestazione in fondo non servì che a far inasprire la cattività in cui il governo teneva Ignazio, che venne deportato a Mitilene; contro i più irrequieti fra questi oppositori furono messe in opera anche le sevizie. Per troncare l’agitazione, un concilio radu­nato ai Santi Apostoli nella primavera dell’859 depose senz’altro Ignazio e buon numero dei suoi partigiani. Impossibile allegare cifre: è però certo che in tutta la giurisdizione si moltiplicarono le sostitu­zioni di vescovi, cosa che certamente non può dirsi indicare quella quasi unanimità di approvazioni invocata più tardi da Fozio. Gli am­bienti monastici della capitale e dei dintorni si divisero: lo Studion, com’era da aspettarselo, si schierò contro « l’intruso » e l’abate, Nicola di Creta, fu dapprima esiliato in Bitinia e poi nel remoto Chersoneso; invece i monasteri dell’Olimpo, come già prima, al tempo dell’iconoclastia, non seguirono in generale lo Studion, molti anzi si dimostrarono fedeli verso Fozio. Insomma, il colpo di forza dell’858 non aveva affatto contribuito a far regnare la pace religiosa nel pa­triarcato. Fozio scrive a Roma Di fronte a questa opposizione era indispensabile che il novello titolare fosse riconosciuto dalla «prima sedes». Ogni patriarca, sa­lendo al trono, scriveva ai titolari dei quattro altri patriarcati una let­tera detta sinodica o «di intronizzazione»; la risposta a questa costi­tuiva la prova che la comunione ecclesiastica perseverava fra il neo eletto ed i suoi colleghi già in carica. D’altra parte, secondo il vecchio concetto della pentarchia, la sede romana teneva il primo posto. Dato il decadimento in cui si trovavano le altre sedi patriarcali, verso di queste la pratica era puramente formale; non così invece per quella di Roma. La sinodica indirizzata da Fozio alla Santa Sede è giunta fino a noi; il novello patriarca vi esprime le apprensioni destategli dalla dignità di cui, suo malgrado, è stato investito; la lettera sorvola sul modo in cui il suo predecessore è stato costretto a lasciar le sue funzioni, poi finisce come d’uso con la professione di fede: il neo eletto proclama la sua adesione alle principali verità dogmatiche e specialmente ai decreti «dei sette concili». Checché pretenda Niceta, nella lettera di Fozio non v’è cenno dell’invio da parte della curia romana di una delegazione a Costantinopoli, presente la quale si sarebbero dovuti, in un sinodo, stroncare i tentativi che ancora facevano gli ultimi avversari delle sacre icone. La missiva sorvola pure sullo stato cui fu ridotto Ignazio, che viene asserito onorevolissimo. Forse tali particolari si trovano nella lettera imperiale che accompagnava, com’era d’uso, la sinodica. Prima risposta di Roma Al momento dell’arrivo di questo corriere a Roma, il papa Nic­colò I non aveva ancora rivelato in qual modo egli concepisse la sua funzione nella Chiesa universale; sarebbe però un errore pensare che la curia accettasse senza riserve un concetto della pentarchia che ridu­ceva la posizione del titolare della Sede Apostolica quasi esclusiva­mente a quella di un primus inter pares. Agli occhi di Niccolò e dei suoi consiglieri, la comunione con la Santa Sede era cosa troppo im­portante per non circondarla, prima di concederla, di tutte le garanzie. Le spiegazioni offerte da Costantinopoli parvero sospette; da Ignazio, patriarca dimissionario, non si era avuta alcuna informazione diretta. Ciò che di meglio si poteva fare era di soprassedere all’invio della lettera di comunione; questa verrebbe mandata solo dopo un’inchie­sta compiuta sul luogo da rappresentanti autorizzati della Sede Apo­stolica. Si sarebbero mandati a Costantinopoli due legati: Rodoaldo vescovo di Porto e Zaccaria vescovo d’Anagni; essi avrebbero il diritto di dare un giudizio sulle questioni relative alle sacre immagini, ma quanto alla faccenda di Ignazio e di Fozio la loro facoltà era espressamente ridotta a quella di commissari d’inchiesta. Due lettere erano i loro affidate: una per l’imperatore e l’altra per Fozio; quest’ultima, brevissima, esprimeva soltanto al destinatario il rincrescimento di non poterlo riconoscere immediatamente: la sua ordinazione era una ordinazione di neofito, riprovata dai canoni; il rapporto dei legati avrebbe dimostrato se — in considerazione delle circostanze, dell’in­teresse della Chiesa e dello zelo di Fozio per l’ortodossia — la Santa Sede potesse transigere. La lettera all’imperatore, molto più lunga, poneva di colpo la questione su tutt’altro terreno: essa cominciava con un’esposizione irenica bensì, ma nondimeno ferma, dei diritti della Sede Apostolica, conseguenza dei suoi doveri. Per il solo fatto che il concilio dei Santi Apostoli era stato tenuto senza l’autorizza­zione del papa, le sue decisioni erano prive di valore, e pertanto la deposizione di Ignazio non era canonica; d’altra parte la lettera spe­dita dall’imperatore dimostrava l’irregolarità di tutta la procedura seguita. Quanto all’elezione di Fozio, essa non era meno contraria al diritto, giacché i canoni vietavano di eleggere un «neofito». La let­tera si chiudeva — bisogna insistere su questo, giacché lì è in germe tutta la questione bulgara — con l’esposto contro Bisanzio, di un’ac­cusa vecchia di più d’un secolo: ossia il pregiudizio causato a Roma dai decreti di Leone l’Isaurico, il quale mutilava il patriarcato romano e confiscava i patrimoni di Calabria e di Sicilia. Risalendo molto più indietro nel passato, Niccolò, od il suo segretario, chiedeva che si ritornasse all’antico stato di cose, a quando l’Illirico orientale dipendeva interamente dalla sede patriarcale di Roma, a quando il vescovo di Tessalonica teneva le funzioni di vicario pontificio per «i due Epiri, l’Illiria, la Macedonia, la Tessaglia, l’Acaia, le due Dacie, la Mesia, la Dardania e la Prevalitana». Le legazione romana a Costantinopoli Rodoaldo e Zaccaria legati romani, partiti per condurre semplice­mente un’inchiesta, giunti che furono sulle rive del Bosforo non tar­darono a travalicare i loro poteri; costretti a studiare, od almeno, così credettero di leggere nelle istruzioni ricevute, tutto ciò che concerneva la questione di Ignazio, essi andarono a indagare perfino sulle circo­stanze della sua elevazione di tredici anni prima, nonché sul suo atteg­giamento verso la curia romana al tempo dei dissidi con Gregorio Asbesta. Tutto ciò i fautori di Fozio seppero sfruttarlo accortamente; i legati si lasciarono convincere di potere, di dovere anzi prendere una posizione, e nell’aprile dell’861 sedettero in un sinodo presie­duto dall’imperatore, che doveva giudicare Ignazio. Le circostanze della sua elezione furono discusse con lui in contraddittorio ed il patriarca dovette riconoscere di esser stato elevato al seggio episco­pale per la sola autorità dell’imperatrice; in seguito però, accorgen­dosi un po’ troppo tardi di un buon mezzo di difesa, portò la que­stione sulla competenza dei legati e, quasi avesse avuto sentore delle istruzioni loro rimesse, disse: «Io non posso venire giudicato da voi, perché voi non siete stati mandati per essermi giudici». Insomma, la procedura fini in una sentenza di deposizione, secondo cui Ignazio era diventato patriarca in maniera irregolare; d’altra parte aveva pro­ceduto illegalmente contro Asbesta e contro due altri vescovi. Fu dunque degradato in pubblica sessione. «Lunga vita al papa Niccolò; lunga vita a Fozio, lunga vita agli apocrisiari romani!». Con siffatte acclamazioni si separarono i membri del concilio. La vicenda della successione patriarcale poco dopo appariva sistemata: Barda otteneva da Ignazio una larva di adesione che permetteva di lasciargli una rela­tiva libertà. Michele, Barda e Fozio potevano ben dirsi vincitori. Sconfessione dei legati romani. Replica di Roma a Fozio Fieri delle loro gesta, i legati erano appena rientrati in Roma nell’autunno dell’861, che tosto venivano sconfessati; le loro dichiara­zioni orali ed i verbali che recavano non lasciavano alcun dubbio sulla condotta da essi tenuta, e la legazione imperiale che portava a Niccolò una lettera dell’imperatore ed un’altra di Fozio non poteva se non confermare questa prima impressione. Il sinodo romano tenuto nel marzo dell’862 — cui assistettero i rappresentanti dell’imperatore — annullò pertanto la procedura diretta contro Ignazio dai due legati, e ciò venne spiegato a Fozio e all’imperatore da due lettere in data del 18 marzo. La prima rispondeva alle scuse allegate dal patriarca per giustificare la sua troppo rapida ascensione al soglio supremo: questi diceva che i canoni relativi all’elezione dei «neofiti» non erano ricevuti nella Chiesa d’Oriente, ed il papa Niccolò gli ritorceva l’argo­mento; appigliandosi al suo titolo di vicario di Pietro ed alla primazia che questo gli conferiva sull’universalità dei fedeli, dichiarava non potersi contestare da alcuno le decisioni da lui prese nella pienezza della sua autorità, anche in materia disciplinare. I precedenti invocati da Fozio non si applicavano nel caso presente; del resto il neo eletto si vedeva impugnato non solamente in quanto «neofito»: era o non era vacante il trono patriarcale quando Fozio vi si era insediato? Lì stava la questione. Il papa, informato d’altra parte del modo in cui erano state fatte pressioni sui suoi rappresentanti, ricusava di sanzionare il giudizio emesso nel concilio greco; egli non condannerebbe Ignazio prima di aver fatto luce su tutta quanta la questione. Però, mentre la curia in queste missive non abbozzava che un gesto di diffidenza verso il neo eletto, la lettera spedita nello stesso giorno ai tre altri patriarcati orientali rivelava disposizioni assai meno ireniche; vi si parlava di Fozio come di un intruso, di uno scellerato che la Sede Apostolica rigettava. Fino a nuovo ordine ed a più ampie informazioni, Ignazio era da Roma riconosciuto per il vero pa­triarca; le altre sedi dovevano uniformare la loro condotta a quella della Sede Apostolica. Insomma era già la condanna di Fozio, che ben presto sarebbe stata resa inevitabile da un altro fatto: alla fine dell’862 perveniva a Roma l’appello di Ignazio, recato con molto ritardo dall’archimandrita Teognosto. Stranissimo documento, a prima vista, questo Libellus che si da per redatto a nome di Ignazio, da dieci metropoliti, da quindici vescovi e da molti cenobiarchi e preti; soltanto vorremmo esser più sicuri che ciò che vi si legge è stato scritto da Ignazio. Questi, come abbiamo veduto e vedremo ancora, non sembra professare verso la Sede Apostolica una particolare riverenza; davanti al concilio radu­nato ai Santi Apostoli egli aveva espressamente dichiarato di non aver fatto appello al papa e di non comprendere come mai Roma venisse ad immischiarsi nei suoi affari. Invece il Libellus afferma che il pa­triarca deposto aveva mandato anteriormente a Roma parecchie let­tere, le quali certamente non dovettero giungere a destinazione. Ma checché ne sia di queste incoerenze, il Libellus costituiva un appello formale alla suprema giurisdizione della Chiesa e raccontava minu­tamente le ragioni che avevano determinato la deposizione di Ignazio. La curia, informata così di un aspetto nuovo del problema, risolse pertanto di adottare provvedimenti energici. Concilio romano dell’863 Nell’aprile dell’863 un concilio romano, radunato dapprima in S. Pietro e poi trasferito in Laterano, si occupò di tutta la faccenda. Non possediamo disgraziatamente il verbale delle discussioni, che dif­ficilmente potevano esser contraddittorie; sappiamo però che Zaccaria si riconobbe colpevole di aver prevaricato nella sua legazione, e fu deposto; Rodoaldo, che in quel tempo era occupato negli affari di Metz, sarebbe chiamato a giudizio al suo ritorno. Cassati gli atti com­piuti dai due legati a Costantinopoli, cinque capitula precisavano i provvedimenti adottati dal concilio romano: il primo riguardava Fozio neofito, ordinato da un vescovo deposto e per di più carnefice d’Ignazio e corruttore dei legati romani; egli verrebbe pertanto spo­gliato di qualunque onore e titolo sacerdotale, e di qualunque ufficio clericale; che se egli non avesse tenuto conto di questa sentenza e non restituisse ad Ignazio la sua sede, sarebbe scomunicato. L’articolo secondo dichiarava Gregorio di Siracusa, suo consacratore, so­speso da ogni ministero sacerdotale; il terzo privava dei loro uffici tutti gli ecclesiastici promossi da Fozio, qualunque ne fosse l’ordine. A tenore dell’articolo quarto, Ignazio veniva restituito nel pieno pos­sesso di tutti i suoi diritti; dichiarata di nessun effetto la sua depo­sizione; chiunque si opponesse alla sua reintegrazione era colpito da censure ecclesiastiche. Venivano parimenti rimessi in possesso, in virtù dell’articolo quinto, tutti gli ecclesiastici che per fedeltà ad Ignazio fossero stati esiliati e destituiti dalle loro funzioni. Aggiun­geremo che Rodoaldo, rientrato finalmente in Roma, benché in ritar­do, ebbe tutto il suo conto: il 1° novembre, dell’864 — cioè diciotto mesi dopo il suo collega — fu a sua volta deposto e scomunicato. Poi, silenzio assoluto. È il momento in cui si stava svolgendo il duello fra Niccolò I e Lotario II: l’attenzione di Roma era provvisoriamente distolta dagli affari d’Oriente. Memorandum romano dell’865 Non sappiamo quando né come fosse data comunicazione a Costantinopoli dei decreti del concilio romano dell’863, ma non è diffi­cile immaginare quale reazione suscitasse laggiù. Conforme alle abi­tudini della curia — la quale, non riconoscendo più Fozio, non po­teva più scrivergli — le decisioni dovettero esser trasmesse all’impe­ratore soltanto; Fozio non aveva quindi altro da fare che chiudersi nel silenzio e lasciare all’imperatore la cura di rispondere. Ciò fece Michele, o, se meglio piace Barda; rispose dunque con una lettera non giunta fino a noi, ma che la curia giudicò «piena di bestem­mie», ed alla quale replicò con un memorandum in data del 28 set­tembre 865. Bisogna leggere questo documento per comprendere quale idea si facessero dell’estensione del potere pontificale i canonisti della curia (vi si riconosce in più punti la mano di Anastasio) e per studiare altresì le prove che, abilmente raggruppate, appoggiano la tesi. Tutto vi attesta un’erudizione poco comune, ma di ben fresca data. In sostanza, tutto questo spiegamento di forze andava a finire in un ripiegamento. La sentenza del concilio romano dell’863 pareva definitiva; ora, aveva forse l’imperatore, qualunque fossero le «bestemmie» di cui era folta la sua lettera, rivelato alla curia qualche fatto nuovo? Comunque, la lettera del settembre 865 ria­priva la questione di Ignazio e di Fozio, invitando, come se nulla fosse stato concluso, le due parti a presentarsi a Roma, personalmente o per mezzo di procuratori. Questa lettera fu rimessa, con un’altra, al protospatario Michele, quegli senza dubbio che aveva recato la protesta dell’imperatore. La missiva di accompagnamento diceva espres­samente che il memoriale era da considerarsi come un tentativo di conciliazione. Dunque la pace non era ancor infranta fra l’impera­tore e il suo patriarca da un lato, e Roma dall’altro; si rientrava, se pur era stata mai abbandonata, per la via degli accomodamenti. LA QUESTIONE BULGARA Importanza della questione Così stando le cose, come va che dopo appena un anno, e senza che alcun fatto nuovo intervenisse nella controversia di Fozio e di Ignazio, si arrivò bruscamente alla rottura fra le due capitali reli­giose? Ciò non si può afferrare bene se non si riprende da lontano una questione che d’ora innanzi — e per vent’anni — dovrà inter­ferire con quella della successione patriarcale: intendiamo dire la que­stione bulgara. I bulgari ed il cristianesimo Quale immenso pericolo costituisse per l’Impero bizantino il gio­vane Stato bulgaro, sortogli al fianca occidentale, l’abbiamo già detto più volte. Dal secolo VII, quando si era manifestato, il pericolo era andato sempre crescendo; ma per fortuna dopo i tempi di Krum e di Omortag la situazione era cambiata: quei feroci pagani che, a più riprese, erano giunti fin sotto le mura della «Città custodita da Dio», cominciavano ormai ad accogliere il Vangelo. Dall’852 circa essi erano governati da Boris; questi, più intelligente e forse più religioso che non fosse il suo popolo, aveva capito che il paganesimo contribuiva più di tutto ad isolare la nazione bulgara, la quale — incuneata tra la Moravia in via di cristianizzazione, la Germania e l’Impero bizan­tino rappresentanti ufficiali del Vangelo — doveva essa pure diven­tare cristiana, sotto pena di essere posta sullo stesso livello degli altri popoli della steppa: Magiari, Peceneghi, Khazari. Ma a quale dei suoi vicini domanderebbe essa il Vangelo: ai Latini o ai Bizantini? Boris era stato catechizzato dalla Chiesa bizantina; poiché, ad una epoca difficile assai da precisare, ma che deve aggirarsi intorno all’864, Michele III gli aveva offerto la pace se consentiva a farsi cristiano, Boris era stato battezzato, avendo a padrino l’imperatore, che gli aveva dato il proprio nome di Michele. Sembra impossibile che Fozio, allora patriarca in carica, non sia intervenuto in un modo o nell’altro in sì glorioso evento; se l’imperatore era padrino del kniaz Boris, il patriarca — fosse stato lui o no a battezzarlo — diveniva pure padre spirituale del neofito. Tuttavia, pretendere che i missionari bizantini siano stati i primi ad innalzare la croce sul suolo bulgaro, è affermare un po’ troppo. Non è il caso di attribuire un’importanza particolare alla testimonianza evidentemente parziale di Anastasio il Bibliotecario; secondo lui, i Bulgari e il loro re Boris avrebbero ricevuto la prima istruzione cristiana da un Romano, il prete Paolo, di modo che Boris fu indotto a volgersi verso Roma per richiedere la regola della fede ed i precetti disciplinari. Così facendo egli si conformava, non soltanto ai suggeri­menti di quel missionario, ma ad una rivelazione divina. La Provvi­denza rimetteva sotto la tutela di Roma quelle regioni già ad essa soggette e sfuggite soltanto in seguito alle invasioni barbariche ed alle mene dei Bizantini. Questa rivelazione divina ben poté presen­tarsi, nel caso nostro, sotto forma di suggestioni venute dalla Ger­mania; infatti, in quel momento possiamo costatare ripetute collu­sioni di Boris con i suoi vicini d’occidente, e nulla vieta di pensare che il re barbaro possa aver avuto l’idea di giocare su due scacchiere. Questo però doveva rinfocolare la tradizionale rivalità fra le due Chie­se: la latina e la greca; ciascuna delle due metropoli, Rema e Costantinopoli, ambiva di attirare la Bulgaria sotto la propria giurisdizione; ora, nulla di più fatale di una siffatta rivalità alla causa del Vangelo. I bizantini in Bulgaria In conclusione, la prima che riuscì a introdurre ufficialmente il cristianesimo in terra bulgara fu precisamente Costantinopoli, la quale intendeva conservare la sua prelazione su quel territorio. Subito dopo il battesimo, Boris chiedeva al patriarca di organizzare nei suoi Stati una completa gerarchia ecclesiastica, nella speranza che non tardasse a diventare autonoma; invece Fozio riteneva che ciò fosse un po’ prematuro: la Bulgaria doveva invece, secondo lui, ricevere missio-nari da Costantinopoli, e restare dapprima sotto la dipendenza della Chiesa madre. Fozio faceva quindi pervenire a quel figlio spirituale un lungo documento, in cui gli esponeva minutamente i principi della fede e della morale cristiana. Per quanto ben fatto, questo cate­chismo dovette certamente sembrare assai esigente a quel barbaro, agli occhi del quale il cristianesimo doveva presentarsi soprattutto co­me un complesso di riti grandiosi e degni di sostituire le cerimonie della religione avita; nel memoriale del patriarca egli avrebbe prefe­rito trovare la promessa di aver ben presto i suoi preti suoi ve­scovi e specialmente un arcivescovo proprio, che potesse un giorno imporgli sul capo la corona imperiale. Lo kniaz sognava già di diven­tare zar: ora, secondo le idee dell’epoca, egli non poteva esser zar, imperatore, se non mediante la benedizione di un capo ecclesiastico indipendente. Non tardò quindi ad operarsi un rivolgimento nell’ani­mo di Boris: se Costantinopoli non aveva nessuna premura di orga­nizzare la Chiesa autocefala bulgara, certo Roma sarebbe stata più compiacente. E nell’agosto dell’866 giungeva nella Città eterna una ambasceria di Boris, Boris si rivolge a Roma Nulla di più grato per la curia romana; era già da tempo che si vagheggiava di riannodare effettivamente alla giurisdizione romana quell’Illirico orientale su cui i grandi papi del secolo V avevano affer­mato i loro diritti patriarcali. A dire il vero, il giovane Stato bulgaro andava assai oltre le frontiere orientali dell’antico Illirico e si esten­deva ampiamente sull’antica «diocesi» di Tracia; ma a Roma non si guardò tanto per il sottile, tanto più che si era sempre assai propensi a sospettare delle ambizioni ecclesiastiche di Costantinopoli. Allorché gli inviati di Boris si presentarono alla curia, questa non era troppo lontana dal considerare sia l’Impero bizantino col suo impera­tore, sia la Chiesa greca con il suo patriarca quali pericolosi scisma­tici; non era dunque opportuno strappare alla loro influenza un po­polo giovane, presso il quale, come si pensava, erano stati i missionari latini i primi ad annunziare il Vangelo? Fu quindi risolto di rispondere immediatamente agli approcci di Boris, e nell’autunno dell’866 fu organizzata una missione, con a capo i due vescovi, Formoso di Porto e Paolo di Populonia, latrice di una lunga risposta alle do­mande di Boris. Il sovrano bulgaro era rimasto meravigliato al vedere le numerose divergenze che gli sembravano capitali, fra la prassi greca e la prassi latina; a ciò la curia rispondeva dichiarando doversi attenere a questa ultima soltanto, e che, per esempio, le cerimonie esteriori del matri­monio non avevano punto l’importanza che i Greci sostenevano, dato che solo il consenso delle parti costituisce il matrimonio; le seconde nozze esser universalmente permesse; non doversi imporre in nes­sun caso l’uso greco dell’astensione dai bagni nei giorni di peniten­za; per nulla vietata la comunione durante la quaresima né impo­sta l’astensione delle opere servili nel giorno di sabato. Nessuna sorta di carne era oggetto di divieto, né le prescrizioni dell’Antico Testamento, nemmeno quelle relative all’uso del sangue, erano da imporre ai cristiani. Checché ne pretendessero i Greci, non era da annettere importanza alle prescrizioni riguardo alla posizione ed all’atteggiamento da prendere in chiesa e per la comunione. Più impor­tanti che simili critiche alle minute usanze dei Greci erano le ripren­sioni alla disciplina della Chiesa orientale; fra l’altro, la curia faceva osservare che il matrimonio dei preti era da riprovarsi, benché non si esigesse che i preti coniugati fossero rimandati per questa sola ra­gione. Né meno aspramente si criticava il concetto degli Orientali circa la Chiesa: invece del concetto pentarchico di questi ultimi bisognava seguir l’idea romana, secondo la quale soltanto le tre sedi apostoliche, Roma, Alessandria, Antiochia, erano sedi patriarcali; quelle di Costantinopoli e di Gerusalemme erano ben lungi dall’avere la me­desima autorità. La curia non era punto malcontenta di metter di fronte i due diritti: latino e bizantino. Restava un punto che preoccupava Boris assai più che tali diver­genze di canonisti; come già a Fozio, così pure al papa egli aveva posto davanti la questione dell’istituzione di un patriarcato bulgaro autonomo; ora Niccolò I non era affatto più disposto di Fozio ad accettare immediatamente quest’idea, ma ebbe almeno l’accortezza di non respingere così ruvidamente le richieste di Boris. Non appena fosse possibile, la Bulgaria avrebbe, se non un patriarca, almeno un arcivescovo munito dei poteri necessari per organizzare una gerarchia; egli potrebbe esser consacrato nel paese stesso, senza costringerlo a venire a Roma; la concessione del pallio attesterebbe ch’egli riceveva la sua giurisdizione dalla Sede Apostolica. La Bulgaria doveva quindi rivolgersi sempre verso la Chiesa romana, la quale sola era la custode del vero cristianesimo, sola non essendo mai caduta in errore. Pren­dendo come norma le direttive romane la Bulgaria si manterrebbe sul retto cammino. Missione inviata in Oriente Per spiegare questo atteggiamento di Niccolò, che non può non destar meraviglia dopo le pacifiche profferte fatte all’imperatore nel settembre dell’865, bisogna tener conto, pensiamo, dell’irritazione che poté esser causata dalla notizia dell’accaparramento compiuto da Costantinopoli sulla Bulgaria e dal malumore provocato dal silenzio in cui si chiudeva Bisanzio. Dato che la città rivale si ostinava, non rimaneva più che significarle la rottura. Perché non fosse possibile ingannarsi sul significato dell’invio in Bulgaria di una missione, par­tiva nello stesso momento da Roma un’altra legazione, la quale do­veva far strada comune con quella di Formoso e di Paolo, ma poi, giunta in Bulgaria, prender la via di Costantinopoli. Capi ne erano Donato vescovo d’Ostia, il cardinale prete Leone e il diacono Marino, latori di un voluminoso corriere; il numero e la lunghezza dei do­cumenti attestano quanto la curia si preoccupasse di non lasciare al­cuno allo scuro delle sue disposizioni. Nulla di nuovo in quanto al fondo di questi interminabili messaggi, nei quali vengono esposti con intenzionale soddisfazione e argomenti canonici e testi del pas­sato; ciò che soprattutto colpisce nei documenti indirizzati ai due principali responsabili, l’imperatore e il patriarca intruso è la ben maggior virulenza del tono. A Michele III si intima di venire a resi­piscenza e di far bruciare in pubblico la sua lettera dell’863, altri­menti «davanti all’episcopato d’Occidente riunito noi anatematizze­remo solennemente i responsabili e faremo affiggere ad una forca e pubblicamente bruciare tutti gli scritti composti per sostenere quell’iniquità». Forse ancor più deplorabili che queste esuberanze di linguaggio erano le imprecisioni che, ad una più attenta lettura, si rivelano in una questione di importanza capitale. Una delle ac­cuse formulate contro Fozio era quella di aver ricevuto gli ordini da un vescovo deposto, cioè da Gregorio Asbesta; ora il modo con cui si esprime uno dei redattori delle lettere apostoliche sembra mettere in dubbio proprio la validità di queste ordinazioni, e per ciò stesso di tutte quelle che ne erano derivate. Le declamazioni di Anastasio contro questi riti sacrileghi, che non potevano esser stati altro che parodie, avranno tosto una immensa eco. L’incartamento rimesso nelle mani di Donato, di Leone e di Ma­rmo arrivò a Costantinopoli? Non possiamo dirlo; sappiamo soltanto che alla frontiera bizantino-bulgara la legazione romana fu fermata, e gli inviati del papa, nell’impossibilità di adempiere alla loro mis­sione, ripiegarono e vennero alla corte di Boris, dove poterono co­statare i felici risultati che Formoso ed i suoi riportavano in Bulgaria. Ben presto i missionari greci erano rimandati. A voler dar retta al sovrano, era necessario che Formoso diven­tasse quanto prima arcivescovo di Bulgaria, e poiché egli era già con­sacrato, non occorreva che ritornasse in Italia: restasse pure nel paese; bastava che da Roma gli venissero inviati rinforzi. Una missione di Boris venne appunto a spiegare questo a Roma durante l’estate dell’867. Ma Niccolò non intendeva affatto derogare dall’an­tica regola che vietava la traslazione di un vescovo da una ad altra sede; Formoso, titolare di Porto, non poteva mai esser arcivescovo dei Bulgari. Ecco quel che una legazione diretta dai vescovi Dome­nico di Trevi e Grimoaldo di Polimarzo doveva cercar di far capire a Boris; egli poteva scegliere un arcivescovo per la sua nazione fra i preti che li accompagnavano, e inviare l’eletto a Roma per farsi con­sacrare. Paolo di Populonia e Grimoaldo dovevano rimanere qualche tempo ancora alla corte bulgara; ma siccome la curia si preoccupava dell’ascendente acquistato su Boris dal vescovo Formoso di Porto, questi doveva andare a Costantinopoli, in compagnia di Domenico di Trevi, per osservarvi la piega che stava prendendo la questione di Fozio. Violenta reazione di Costantinopoli Ma non era certo quello il momento favorevole per dei Latini di arrischiarsi nella capitale bizantina. Durante quell’anno 867 la rottura fra Roma e Costantinopoli, fino allora latente, era finalmente avvenuta; poco importa se il patriarca fosse o no a conoscenza delle lettere spedite da Roma il 13 novembre 866; il fatto è che l’inter­vento dei missionari latini in Bulgaria aveva indotto Fozio ad uscire dalla riserva che s’era imposta prima. Eppure le circostanze politiche lo avrebbero dovuto distogliere, poiché Barda, suo protettore, era stato trucidato in aprile dell’866 da Basilio, favorito di Michele III e ormai onnipotente nel Sacro Palazzo. Vero è che Fozio non aveva punto rotto i rapporti col nuovo padrone, anzi si era prestato alla cerimonia dell’incoronazione di Basilio; ciò non toglie che da que­sto lato vi fossero difficoltà da temere. Ad ogni modo nulla impedì al patriarca di formulare una solenne protesta contro le «intrusioni» romane. Siffatta protesta assunse la forma di una lunga enciclica indiriz­zata alle altre sedi d’Oriente per segnalare alla loro indignazione la condotta di certi esecrabili uomini, i quali, venuti dall’Occidente, paese delle tenebre, avevano distrutto le speranze che offriva la Bulgaria. Vi si denunziavano le loro innovazioni dogmatiche e discipli­nari: digiuno del sabato, permesso dei latticini nella settimana pre­cedente la quaresima, celibato ecclesiastico, reintegrazione della cre­sima data dai semplici preti; ma soprattutto inserzione della clausola Filioque nel simbolo. Era dunque necessario che, tralasciando ogni altra cura, tutto l’Oriente protestasse contro questi misfatti; si radu­nasse un concilio a Costantinopoli, che esprimesse la solenne con­danna lanciata dai quattro patriarcati, condanna che, diceva l’enci­clica, avrebbe avuto ben presto un’eco in Occidente, dove si era or­mai stanchi della tirannia di colui che in Roma deteneva il potere. Salvo questo passo, dove si fa in maniera nettissima la distinzione fra la Sede romana e colui che la occupa, e, come si dirà più tardi, fra la sedes ed il sedens, non c’è dubbio che l’enciclica foziana sia un riassunto di tutti i rancori e di tutte le accuse da sì gran tempo accumulati dalla Nuova Roma contro l’Antica; questa enciclica servirà indefinitivamente da arsenale a tutti i Greci in vena di polemiche contro la Santa Sede e sotto questo aspetto fa, come si suoi dire, epoca. Concilio di Costantinopoli (estate dell’867) Lo stesso dicasi del concilio che, su convocazione di Fozio, si ra­dunò a Costantinopoli nell’estate dell’867. Non avendone gli atti uf­ficiali, siamo assai male informati su quello che vi si svolse; non può tuttavia esser dubbio, checché si sia preteso più tardi, che la parte­cipazione dell’episcopato bizantino dovette esservi considerevole. Buona parte dei vescovi, nei dieci anni dacché regnava Fozio, era stata ordinata da lui, e gli antichi titolari rimasti in carica gli erano favorevoli; e i patriarcati melchiti, rappresentati dai loro apocrisiari permanenti, non erano affatto disposti a scuotere la dominazione di Costantinopoli. Insomma, Fozio non ebbe difficoltà a schierare contro Roma una schiacciante maggioranza. Infine venne pronunziata con­tro il titolare della Sede Apostolica una sentenza di deposizione, di anatema e di scomunica,66 intanto che si cercava di aizzare contro il papa Niccolò «il re di Francia» e la sua sposa (e cioè l’impera­tore Ludovico II ed Engelberga) promettendo loro di farli ricono­scere quali imperatori da Costantinopoli se avessero scacciato Niccolò dalla sua Chiesa. Di queste decisioni venne spedita copia ai patriarcati orientali, mentre due vescovi greci, Zaccaria di Calcedonia e Teodoro di Laodicea, partivano per recare in Italia gli atti conci­liari. Morte di Niccolò I Questi atti Niccolò non li ricevette mai, e solo in modo incom­pleto venne a conoscenza della reazione di Costantinopoli; ma ciò ch’egli ne seppe, certamente dai suoi rappresentanti in Bulgaria e forse dalla stessa enciclica di Fozio, era bastevole perché si rendesse conto del pericolo imminente. Pericolo per sé, in quanto un’alleanza dei Greci con l’imperatore Ludovico poteva aver conseguenze gravi; pericolo soprattutto per il prestigio della Chiesa romana. Alle accuse mossegli dall’Oriente non bisognava che l’Occidente rimanesse senza dar risposta, cosicché, per quanto cagionevole di salute, nell’agosto di quell’anno 867 il papa ritrovò sufficiente energia per mobilitare con­tro i Greci quanti dotti contava ancora il suo clero; specialmente Incmaro di Reims fu invitato a porre in servigio della Chiesa romana le sue cognizioni di storia. Molto si riprometteva la curia soprattutto dall’affetto che potevano avere i frequenti concili in tutti i paesi di lin­gua latina; era insomma una mobilitazione generale, contro l’assalto greco, di tutte le forze teologiche dell’Impero carolingio. Ma papa Niccolò I moriva il 13 novembre senza saper nulla dei risultati; meno ancora egli era stato messo al corrente dei gravi eventi che dal 24 set­tembre in poi andavano precipitando a Costantinopoli, rendendo inu­tile la risposta dei Latini. Avvento di Basilio il Macedone Infatti, nella notte dal 23 al 24 settembre, nella capitale si era verificato un colpo di Stato che doveva avere una immensa ripercus­sione sulle sorti politiche e altresì religiose dell’Impero: Basilio il Macedone faceva trucidare Michele dalle sue guardie ed il giorno dopo veniva proclamato imperatore. Fin dai primi giorni egli dimostrò con tutti i suoi atti l’intenzio­ne di far proprio il rovescio della politica del suo predecessore. Ora Fozio aveva acquistato su Michele un considerevole ascendente: scom­parso Michele, doveva scomparir pure Fozio. Non andiamo a cercare motivi religiosi nella condotta di Basilio, imperatore due volte assas­sino; tuttavia la causa della religione, o, se vogliamo, il prestigio dell’Antica Roma, doveva giovarsi, almeno provvisoriamente, del col­po di forza del 24 settembre.
Posted on: Wed, 23 Oct 2013 22:08:47 +0000

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