DISCORSO ALLA CITTÀ nella solennità di san Prospero, patrono - TopicsExpress



          

DISCORSO ALLA CITTÀ nella solennità di san Prospero, patrono principale della Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla Basilica di san Prospero, 24 novembre 2013 Cari amici, cari fratelli e sorelle, illustri autorità, da molti anni la festa del nostro patrono, san Prospero, è anche l’occasione perché il Vescovo rivolga non solo ai credenti, ma a tutta la città, la sua parola. Una parola che il Vescovo non può che trarre dal Vangelo e che vuole essere di riflessione e di conversione innanzitutto per lui, poi per i sacerdoti, per tutti i fedeli e per chi, mosso dallo Spirito, sente dentro di sé il desiderio di un cambiamento positivo della propria vita. Certo, la festa del patrono ha innanzitutto un significato religioso. San Prospero è stato vescovo di Reggio Emilia nel V secolo. Celebrare la sua memoria vuol dire innanzitutto riconoscere che Dio ha benedetto la nostra terra, ha scelto dei testimoni di tale elezione, ha voluto che qui vivesse il popolo cristiano come germe di unità e di rinnovamento di tutta la società (cfr. Lumen Gentium, 1). In occasione di questa festa vogliamo rinnovare la nostra preghiera al nostro santo vescovo perché continui a manifestare la sua opera di intercessione per il nostro popolo e di protezione sulla nostra città. Abbiamo tutti bisogno di benedizione e di protezione, soprattutto oggi, quando il perdurare della crisi economica segna dolorosamente ogni ambito del vivere sociale. I due lati della povertà Desidero perciò riflettere con voi oggi sul tema della povertà per trarre indicazioni e tracce per un cammino in avanti della nostra vita quotidiana. Se guardiamo alla nostra esistenza e guardiamo al Vangelo vediamo due lati della povertà: uno oscuro e uno luminoso. Quello oscuro lo abbiamo davanti e vorrei soffermarmi un poco a descriverlo, anche se tutti lo conosciamo e molti fra di noi ne fanno esperienza. Quello luminoso è descritto dalla prima beatitudine che tutte le raccoglie: beati i poveri (cfr. Lc 6,20; Mt 5,3). Che cosa avrà voluto dire Gesù con queste parole? Può la povertà, che è causa di disagi e perfino di morte, essere fonte di beatitudine? Cosa vuol dire papa Francesco quando parla di Chiesa povera, che deve curvarsi sui poveri? Sono queste le domande a cui desidero rispondere oggi. La crisi: un’opportunità? L’attuale situazione di crisi, che provoca tanto male e tanto disagio, urge in noi un cambiamento di stile di vita. Essa, pur negativa, può capovolgersi in un’opportunità positiva di cambiamento, può aprire il nostro cuore ai bisogni degli uomini, soprattutto di quelli che vivono vicino a noi, e determinare nella nostra esistenza un passo di vita più libero, più umano, meno impacciato da tanti pesi che condizionano le nostre ore quotidiane. Come disse una volta Einstein: «La creatività nasce dalle difficoltà, come il giorno nasce dalle tenebre della notte. E’ dalla crisi che scaturiscono inventiva, scoperte e grandi strategie» (A. Einstein, Il mondo come lo vedo io, 1934). Il lato oscuro della povertà Durante questi ultimi anni abbiamo assistito ad una serie dolorosissima di fallimenti di tante piccole imprese della nostra provincia. Anni di lavoro, di creatività e di speranza sembrano andare in fumo in un attimo, con la conseguente perdita di posti di lavoro, l’impoverimento grave di tante famiglie e il risvolto tragico di suicidi, di divisioni all’interno delle famiglie, di crisi personali, con una sofferenza umana e sociale enorme. Il ricorso alla cassa integrazione sembra non bastare più, aumentano il precariato, i lavoratori poveri, le diseguaglianze sociali. Un numero sempre maggiore di famiglie conosce la povertà economica. Aumenta l’incertezza e diminuisce la speranza nel futuro, specie tra le giovani generazioni. Lo scorso hanno i poveri relativi in Italia erano 9 milioni e 563mila pari al 15,8% della popolazione (13,6% nel 2011), mentre la povertà assoluta, quella che tocca primarie necessità per il sostentamento riguardava 4 milioni e 814mila, pari all8% della popolazione (5,7% nel 2011). Sono ormai 4.068.000 le persone che soffrono di povertà alimentare, (+47% dal 2010), di queste il 10%, (428.587) sono bambini che hanno meno di 5 anni. Povertà sociale e povertà morale Si sperimenta una terribile interazione tra povertà sociale e povertà morale. Quando manca la speranza, le difficoltà di rapporto sembrano insormontabili. I fallimenti delle relazioni matrimoniali, causati talvolta dall’ansia per il lavoro e per il mantenimento dei figli, generano solitudine e condizioni insostenibili per coloro che non possono più permettersi un alloggio decente o non riescono più a coprire le proprie spese di utenza o sanitarie. L’origine principale della povertà è la solitudine, l’allentamento di quei legami familiari, di quella rete di amicizie e appartenenze che hanno fatto e fanno il nostro tessuto sociale. Tutto quello che distrugge questo sistema naturale e storico diventa fattore di ineguaglianza. Oggi può diventare povero chi ha in casa un malato cronico da curare; chi perde il lavoro a cinquant’anni per una improvvisa crisi aziendale; chi si ritrova anziano e solo senza una pensione adeguata; chi, in una situazione economica difficile, si trova ad affrontare separazioni matrimoniali. I centri di ascolto della Caritas stanno accogliendo sempre più persone. Il Banco Alimentare sfama, ogni giorno, 1 milione e 700 mila italiani. Gli aiuti sembrano non bastare mai, nonostante gli ammirevoli sforzi dei volontari. Nascono, poi, nuove povertà, causate spesso dal desiderio di dimenticare la propria situazione di indigenza. Si cercano risposte nel gioco d’azzardo, che costituisce oggi una vera e propria piaga sociale. Annichilisce le persone, trascinandole in un gorgo senza fondo, e pregiudica spesso la tenuta delle relazioni familiari e il lavoro. Aumentano le altre dipendenze, provocate dal consumo di stupefacenti, aumentano i disturbi alimentari, anoressia e bulimia, lo shopping compulsivo, la cyber-dipendenza. La criminalità organizzata trae frutto da tutte queste debolezze. È l’industria che non conosce crisi, che costituisce un mercato capace di inquinare tutti gli altri mercati e costringe gli enti di servizio sociale e le istituzioni a sforzi immani di lotta al crimine. La nostra Chiesa diocesana, attraverso le parrocchie, la Caritas, e tantissime altre associazioni di volontariato, da anni si prodiga alacremente per far fronte a queste emergenze. Non si tratta solo di aiuti materiali, ma anche di quei beni, cosiddetti “intangibili”, che infondono atteggiamenti di cura e di speranza. La ripresa è possibile Proprio su questi temi vorrei ora portare la mia e vostra attenzione e chiedere a Dio e agli uomini la forza e il desiderio di un cammino di cambiamento. Altre volte, anche nella storia recente, l’Italia è rinata. La grande migrazione obbligò venti milioni di persone a lasciare l’Italia tra il 1880 e il 1920. Poi ci furono le guerre. Ma non venne mai meno nella gente la capacità di rispondere ai bisogni concreti che le nuove situazioni determinavano. In momenti difficilissimi si sviluppò la capacità popolare di creare welfare, solidarietà, operatività economica, addirittura un mondo bancario solidaristico. Uscita distrutta e sconfitta dalla Seconda Guerra Mondiale, l’Italia diventò, nel giro di pochi anni, il settimo Paese più industrializzato del mondo. Se noi vogliamo oggi ripartire, dobbiamo coniugare creativamente la ripresa del lavoro con l’attenzione a tutto l’immenso disagio, che implica inevitabilmente una maggiore sobrietà nel vivere. Come ho detto, c’è un lato luminoso della povertà, che coincide con l’opportunità di riscoprire ciò che è essenziale, di chiedersi cosa può davvero soddisfare il nostro bisogno. Una povertà che coincide anche col nostro accettare di diventare meno attaccati e dipendenti dai beni materiali. Di imparare dai poveri e, nello stesso tempo, in questo modo, di diventare più capaci di curvarci su di essi, modificando i profili della nostra esistenza. «Tutti siamo chiamati ad essere poveri – afferma il Papa –, a spogliarci di noi stessi… Spogliarsi di ogni mondanità spirituale, che è una tentazione per tutti; spogliarsi di ogni azione che non è per Dio, non è di Dio; dalla paura di aprire le porte e di uscire incontro a tutti, specialmente dei più poveri, bisognosi, lontani» (Discorso all’incontro con i poveri assistiti dalla Caritas, Assisi, 4 ottobre 2013). Una situazione di disponibilità All’inizio di questo mese di novembre l’indagine annuale del Censis, riportata in sintesi dai giornali, rivelava uno spaccato sorprendentemente incoraggiante degli italiani. In che cosa molti italiani cercherebbero oggi la propria realizzazione? La risposta data nell’indagine è la seguente: non più in un’affermazione individualistica ed egoistica di se stessi, nella competizione con gli altri, ma nel desiderio di ritrovare l’altro. Con questo non si vuole dire che improvvisamente egoismi e materialismi siano svaniti, soltanto si vuole rilevare che nella coscienza di molti italiani essi hanno mostrato la loro incapacità di rispondere ai desideri più profondi del loro animo. Si sta scoprendo che non si può essere uomini da soli, anche se non si sa ancora cosa questo voglia dire e quali conseguenze possa portare. L’Enciclica Sollicitudo Rei Socialis di Giovanni Paolo II chiamava tutti a un nuovo atteggiamento perseverante per il bene comune, una conversione per ripristinare quelle premure e quelle condivisioni che fanno dell’uomo un compagno di viaggio sicuro per altri uomini, propri fratelli (cfr. n. 38). Siamo forse in un momento che potremmo descrivere come “situazione di disponibilità”. Occorre indicare la strada. La situazione di crisi può determinare una rivoluzione di civiltà, oppure farci sprofondare tutti in una chiusura e in una delusione ancora più profonde. «Le rinunce a cui costringe la crisi ci aiutano a riscoprire il valore dell’amicizia, dell’amore, dell’altruismo», è stato scritto di recente su un quotidiano italiano (Ernesto Olivero, SERMIG, Avvenire, 7 Novembre 2013, p. 4). E aggiungeva: «Chi ha più autorità, più si deve impegnare nella cura». Ecco perché vorrei ora indicare a me e a voi alcune strade possibili di questa cura della nostra umanità. Alcune strade di cambiamento 1. Innanzitutto dobbiamo entrare in una considerazione diversa del valore dei beni materiali. L’uomo non può vivere senza beni materiali, di cui il primo è il corpo. Alcuni costituiscono un diritto fondamentale, come il lavoro e la casa. Possiamo quindi vedere subito come i beni materiali fondamentali siano legati ai beni spirituali, decisivi per la vita dell’uomo. Senza corpo l’uomo non esiste, gli mancherebbe lo strumento necessario della conoscenza e dell’amore. Allo stesso modo, senza lavoro l’uomo non solo perde la propria strada di mantenimento, ma anche la via di espressione di sé e di relazione con gli altri. Così è per la casa. Così per il cibo, necessario al nostro sostentamento. Ma in questi ultimi cinquant’anni ci siamo appesantiti, abbiamo desiderato beni sempre nuovi, di cui ci siamo presto stancati. Non sappiamo più godere delle cose per l’ansia di sempre nuove risposte. Vogliamo nuovi viaggi, nuovi giochi, nuove tecnologie, nuove occasioni di vacanza. Cresce la nostra dipendenza dalle cose, ne diventiamo schiavi. Dobbiamo tornare ad essere uomini più liberi, come ha indicato Gesù nei suoi discorsi missionari (cfr. soprattutto Mt 10). Più sobrietà nel cibo, nel vestire, nell’abitare, nel divertimento. Aumenterà così anche la nostra capacità di godere, la nostra disponibilità di tempo e la nostra possibilità di aiutare gli altri. Occorre riscoprire i desideri autentici. Il desiderio è la struttura profonda e irriducibile dell’uomo; è nella persona umana, ma è più grande di essa, e trae origine dal rapporto con l’Infinito che l’ha creata. L’Italia ha come suo punto di forza il valore dato al desiderio della singola persona che è fonte di creatività, amore alla bellezza, capacità di inventiva, accettazione del sacrificio. Un desiderio educato dalla fede spinge a costruire famiglie stabili, a mettersi insieme in associazioni, movimenti, corpi intermedi: fattori di educazione, solidarietà, sussidiarietà, democrazia, pluralismo. 2. Riprendere le relazioni con chi ci è vicino. Abbiamo vissuto per secoli non in un mondo ideale, ma certamente in un mondo, come quello agricolo, in cui si era più consapevoli gli uni degli altri. Ci si conosceva e ci si poteva aiutare più facilmente. Oggi, soprattutto nelle città, ma anche altrove, ci si chiude con più facilità nella propria casa, nel proprio mondo, sopraffatti dalle responsabilità e dalle fatiche, ma anche paurosi degli altri e diffidenti. La conversione in questo campo può partire da piccole cose. Ricominciare, per esempio, a condividere un po’ del tempo degli altri e dei loro bisogni. Aprire la nostra casa all’ospitalità. Essere presenti nei momenti più importanti della vita degli altri, come le nascite, le malattie, le morti. Curvarsi sugli altri, perché le nostre vite sono legate. Aiutare gli altri ad avere speranza, a non sentirsi soli, a sapere che in caso di necessità ci sono altre persone con cui condividere le proprie fatiche. «Tutti siamo responsabili di tutti» ha scritto Giovanni Paolo II, sempre nella Sollicitudo Rei Socialis (cfr. n. 40). 3. Una terza strada. Favorire un migliore rapporto tra servizio sociale pubblico e privato. La nostra città e la nostra provincia, la nostra Chiesa, vedono la presenza di un’enorme rete di risposte ai bisogni nate da idealità laiche e religiose. Occorre sostenere tutti questi ideali, completare e perfezionare la declinazione del principio di sussidiarietà in modo armonico. I bisogni sociali sono più efficacemente affrontati valorizzando le azioni “dal basso”, cioè dai soggetti naturalmente più vicini al bisogno e più in grado di accompagnare l’azione delle persone perché diventino protagoniste di un possibile cambiamento del loro destino. Non si tratta di assistenza anonima, ma di relazioni di cura, volte a restituire dignità e speranza a coloro che sono colpiti duramente da questa povertà multidimensionale. Senza dimenticare che il valore profondo di un’azione sociale sta soprattutto nella sua capacità di educare. Associazioni non profit, di volontariato e tutte quelle realtà fatte dalla partecipazione della gente sono quelle che più naturalmente tendono a favorire la tessitura di rapporti tra uomini, aiutano le persone più bisognose a vedere la propria condizione e tutta la realtà con uno sguardo diverso. Chi si presenta quotidianamente alle porte di questi enti a chiedere sostegno, instaura un naturale rapporto di fiducia con chi lo aiuta senza secondi fini. Nella provincia Reggio Emilia, tra APS (Associazioni di Promozione Sociale), Organizzazioni di volontariato e Cooperative, ci sono 1091 realtà; che danno lavoro a circa 26.300 persone, di cui 8.400 retribuite. La comunità diocesana vuole raccogliere la sfida provocata dal lato oscuro della povertà, per aiutare gli uomini ad entrare in uno sviluppo autentico, a sostenere le migliori aspirazioni dei loro fratelli. Tutto ciò che la Chiesa compie per ridare all’uomo la coscienza vera della sua dignità, tutto ciò che compie in favore della vita, aiutando coloro che sono soli, abbandonati, ammalati, incurabili, lo fa con la consapevolezza del valore sociale della sua azione: «La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli. La ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità» (Benedetto XVI, Caritas in Veritate, n. 19). Allo stesso modo l’aiuto alle famiglie, alla stabilità dei rapporti e delle relazioni parentali, la sollecitazione alle istituzioni pubbliche per una legislazione a favore delle famiglie e delle nascite che ancora manca, ha un enorme valore di welfare e di sostegno a tutta la società. La Chiesa, in particolare la comunità diocesana, non può certo proporsi di risolvere i gravi problemi di questo momento. Non è il suo compito. Tragico o ridicolo sarebbe il suo confondersi con le istituzioni pubbliche. Eppure il compito della Chiesa non è meno importante. Esso si esprime soprattutto nell’educazione e nella testimonianza della carità e si pone, così, alla radice di un cambiamento virtuoso che potrebbe generare veramente un passo in avanti per tutti. In questa direzione sono andate oggi le mie parole e anche la preghiera per la nostra città e il nostro popolo. Cari fratelli e sorelle, cari amici, come conclusione di queste mie riflessioni vorrei riproporre la domanda d’inizio: chi è il povero che è proclamato beato? Come possiamo entrare anche noi nella prima beatitudine? Povero è colui che non confida in se stesso, nelle proprie forze, nelle proprie ricchezze, ma colui che confida in Dio. Lui è la sua forza, il suo appoggio, la sua sicurezza (cfr., per esempio, Sal 17, 2-3: Ti amo Signore, mia forza, …mia roccia, mia fortezza, mio liberatore. Mio Dio, mia rupe in cui trovo riparo. Mio scudo e baluardo, mia potente salvezza). Per questo non vive nessun attaccamento smodato ai beni della terra, sa godere di ciò che possiede e sa distribuirlo a chi non ha di che vivere. Non è chiuso egoisticamente in se stesso, ma si apre alle necessità dei fratelli, condividendo con loro i beni, il tempo, i doni della propria personalità. «Per tutti – ha scritto papa Francesco –, anche per la nostra società che dà segni di stanchezza, se vogliamo salvarci dal naufragio, è necessario seguire la via della povertà, che non è la miseria – questa è da combattere –, ma è il saper condividere, l’essere più solidali con chi è bisognoso, il fidarci più di Dio e meno delle nostre forze umane» (Discorso all’incontro con i poveri assistiti dalla Caritas, Assisi, 4 ottobre 2013). Chiediamo al Signore, per noi e per la nostra città, la grazia di questa beatitudine.
Posted on: Sun, 24 Nov 2013 21:43:02 +0000

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